Articles

OBSERVATORIUM VOOR HET MENSELIJK GEDRAG
UNE MICROSOCIÉTÉ : LES TENTES DE DRE W
Touching Down in Public Space / english
Canvas Creations / english
The New Masters / english
A tent for all birds / english
Een tent voor alle vogels / dutch
Jumping the Boarding / english
Over De Schutting Springen / dutch
Stands and Tents / english
Lemniscaat / italian

Lemniscaat / italian

Dre Wapenaar “Lemniscaat”
di Fabrizio Tramontano


A cinque anni di distanza dalla prima presentazione del suo lavoro a Napoli nel 2001, la presenza sincronica in ben 3 mostre da marzo a giugno, tra Torino e Milano, di tende e padiglioni di Dre Wapenaar, si è configurata come una sorta di “retrospettiva casuale” che il nostro paese ha dedicato all’artista olandese. Tale mostra diffusa ha anticipato di qualche settimana la vera ed estesa retrospettiva “Live and Die”, curata dallo Chabot Museum di Rotterdam, a seguito del conferimento all’artista dell’ “Hendrik Chabot Prize” per il 2005. Prolungata fino alla fine di luglio, la mostra presentava installazioni collocate nei più prestigiosi spazi pubblici e privati della città. L’ improvviso risveglio d’interesse per la sua opera ha comportato un concentrato tour de force progettuale, esecutivo e installativo tra Torino, Milano e Rotterdam. Ma tale sforzo è stato, però, ricompensato per Wapenaar e per chi vi ha partecipato vivendololo in quanto tale, oltre che dalla nascita di due nuove opere, dall’essere di per sé il rito della produzione, e poi dell’erezione della tenda\padiglione - per questa operazione sono di solito necessari all’artista da uno a 3\4 assistenti- un’esperienza pienamente gratificante, poiché l’opera è già al lavoro fin dal momento che comincia a trasformarsi - direbbe Louis Kahn - da un’essenza\idea in un’esistenza\oggetto. L’opera è appunto la tenda\padiglione nello spazio pubblico o privato, interno o esterno, in cui è collocata, più le persone che la usano - o, meglio, solo il fugace tessuto di relazioni estemporanee che si creano tra le persone, attraverso il pretesto d’uso.

Dal 1987 Dre Wapenaar costruisce opere che interagiscono con lo spazio sociale e percettivo impiegando, inizialmente, elementi architettonici come porte o infissi di finestre prodottidall’industria dell’edilizia, estratti dal loro contesto, ed assemblati in modo da acquisire autonomo valore scultoreo. Dal 1993 in avanti, l’artista si è dedicato esclusivamente alla progettazione e alla realizzazione di tende e piccoli padiglioni. Con la loro contemporanea allusione sia agli archetipi della vita associata che della forma, le tende e i padiglioni di Wapenaar rappresentano appunto la riflessione e la ricerca dell’artista sulle modalità con le quali gruppi di persone e singoli individui si relazionano fra loro e con lo spazio.

La prima tenda realizzata nel 1993 è, non a caso, una Family Tent. La famiglia è il primo gruppo sociale e il bisogno di una “casa” ha dato origine al primo spazio architettonico. In questo caso si tratta, però, non di un semplice rifugio, ma di un’organismo già in sé complesso, di una vera casa con strutture in telaio d’alluminio e pareti in tessuto, con la “stanza” dei genitori posta al centro, ed illuminata dall’alto, e gli ambienti per i figli collocati intorno a corona. Dopo la tenda “per una famiglia” Dré Wapenaar ha iniziato a produrre tende per attività specializzate, concepite per spazi pubblici, e tese a celebrare, trasformandole in riti collettivi, le semplici azioni della vita quotidiana. In queste opere, l’artista ricerca una forma che colga l’essenza della funzione che la tenda deve assolvere, mentre il designer mira ad attrarre il passante\riguardante e a “provocare” la sua reazione socializzante, come abbiamo già detto, attraverso l’utilizzo della tenda insieme ad altre persone.

A Torino, a Palazzo Cavour, dal 31 marzo al 2 luglio, nel contesto della mostra “Metropolitanscape” curata da M. di Capua, G. Iovane e L. Mattarella è stata presentata proprio una di queste opere: “Showertent” (“tenda per fare la doccia”, del 1997), contrapposta significativamente, ma in un confronto certamente impegnativo in una stanza dello storico edificio, ad uno degli “igloo” di Merz. Costruito, al solito, senza varchi di accesso in lastre di ardesia grezza poggiate su listelli di pietra segata, invece, a macchina, e fissate, con i consueti morsetti da falegname, ad archi - a pieno centro e vincolati in chiave - in tubolare di ghisa, per il grande artista torinese: «l’igloo è la forma organica ideale.

È nel contempo mondo e piccola casa». In questa interessante intervista rilasciata a G. Celant in cui l’artista descrive il significato di questa forma archetipa (pubblicata in: M. Merz, a cura di G. Celant, Milano 1983, in occasione della mostra nella Repubblica di S. Marino), l’artista rivela la memoria ossessiva di un grande castagno che nelle serate di vento picchiava, carico di frutti, sui vetri della sua stanza nella grande casa in collina; delle bombe che hanno fatto crollare in parte la casa - poi ricostruita - e dalla protezione offerta alla famiglia dal rifugio scavato dal padre durante il bombardamento; dell’incendio della sinagoga di Torino e della militanza antifascista che gli è costata il carcere, della gioventù trascorsa con uomini eccezionali come Elio Vittorini ed, infine, della speranza, nel dopoguerra, che l’arte potesse diventare «il linguaggio nuovo». Afferma ancora Merz: «quello che mi ha interessato nell’igloo è il fatto di esistere nella mente prima di essere realizzato: un’idea organica non è ancora l’organico in assoluto, bisogna prima realizzarla. Successivamente interviene il problema di organizzare una struttura per quanto possibile semplice. L’architettura è una costruzione qualche volta matematica, qualche volta decorativa ma è sempre una costruzione per rifugiarsi, per dare all’uomo una dimensione totale.

L’igloo è una sintesi, è un’immagine complessa, visto che tormento a fondo l’immagine elementare dell’igloo che porto in me». “Showertent”, come d’altra parte anche “Newspaperkiosk” (“chiosco per leggere il giornale”, 1998) con cui è stata presentata inizialmente a Napoli, rappresentano esempi di opere che non rimandano “alla sintesi”, al “concetto di casa, alla lumaca, alla chiocciola, al guscio” bensì ad un tentativo di compiere, al contrario, una scomposizione analitica di alcune singole azioni specializzate che si compiono quasi
inconsapevolmente in casa o nello spazio pubblico.

Nell’espletamento di queste azioni, peraltro, diamo per scontata, o trascuriamo, la necessaria componente impiantistica - proprio quel plumbing che distingue, secondo Duchamp, l’arte dall’architettura, e alla cui integrazione significativa nella struttura dell’edificio Louis Kahn ha dedicato una parte consistente della sua ricerca architettonica, affiancandola allo studio qualitativo dei sistemi passivi per il controllo del benessere ambientale.
L’azione\tenda specifica, come le altre che Dre Wapenaar ha celebrato in magnifiche opere costruite intorno ad un dispositivo tecnologico - la stufa del “winterbivoak” (1997), la macchina espresso della “coffeetent” (1998), o il proiettore per effettuare, più esplicitamente, dibattiti \ conferenze sul tema della solitudine urbana nel “padiglione della solitudine”, 1999 (realizzato in collaborazione con l’artista Alicia Framis), mira alla presentazione, una volta che questa è diventata elettrodomestico e che si è in qualche modo
umanizzata entrando nelle nostre case, delle inaspettate potenzialità socializzanti della macchina. Nel caso specifico, l’azione è resa possibile da un rudimentale, ma allo stesso tempo ingegnoso, circuito di semplici apparecchiature per uso domestico, collocate in contenitori di plastica colorata e in piccoli scomparti celati nella pedana della doccia. Su un altro livello di lettura, la visualizzazione dei contenitori per le acque e per le energie, vicino alla tenda, potrebbe indurre, in maniera estetica, la consapevolezza che quella semplice azione comporta ogni giorno la disponibilità di un certo quantitativo di acqua potabile, che con l’apporto di energia elettrica e di gas (che occorrerà produrre ed inscatolare da qualche parte), si trasformerà prima in acqua calda, poi in acqua sporca che occorrerà quindi smaltire come i residui della combustione del carburante. Tale acqua sporca potrebbe, per inciso, sostituire l’acqua potabile nello scarico del WC ma questo è un discorso che andrebbe certamente rimandato ad altra sede. Una volta penetrati all’interno della tenda, quindi, la rotazione della anopola del rubinetto dell’acqua calda aziona una piccola pompa (analoga a quella delle lavatrici, alimentata da una batteria d’auto e contenuta con lo scaldino sottolavello a gas, in un grande bidone verde a tronco di cono) che risucchia l’acqua pulita da un serbatoio blu (simile a quelli di cui sono disseminate le campagne vesuviane) e la sospinge attraverso lo scaldino inviandola finalmente nel soffione della doccia; il “troppo pieno” presente nello scarico al suolo aziona, infine, una pompa di sentina che sospinge l’acqua sporca verso il contenitore verde dell’acqua utilizzata chiudendo così il ciclo. Tale azione, purtroppo non esperibile, come avrebbe voluto l’artista, dagli utenti della mostra a Palazzo Cavour - alla scultura-con-un-uso, per motivi di sicurezza che impedivano la presenza di una batteria e di una bambola da 15 litri di gas butano all’interno di una sala dell’edificio, non è stato consentito di funzionare - è stata rappresentata dall’artista, al momento del concepimento dell’opera, attraverso l’ideale cristallizzazione del getto d’acqua che dovrebbe appunto provenire dalla doccia.

Questa forma “espressionista” evocativa, allo stesso tempo - forse perché, se collocata in esterno su una spiaggia del nord, come una pila di ponte in un fiume in piena, la superficie della tenda deve opporsi al vento impetuoso caratteristico di quell’ambiente - del dinamismo “macchinista” di piroscafi e locomotori che abitano il più grande porto commerciale del mondo (ed omaggio forse inconsapevole ad Oud) è stata poi realizzata artigianalmente su disegno. Compongono l’opera: una semplice pedana poligonale in legno, sulla cui superficie, resa impermeabile ed antisdrucciolo per permetterne l’utilizzo in sicurezza ed inoltre proteggerla dal degrado indotto dall’acqua, si legge la costruzione geometrica a matita del poligono che definisce la forma e individua la posizione degli elementi; una struttura\telaio ad archi policentrici in tubolare di ghisa (in queste prime opere ancora incurvati a mano dall’artista nel suo studio contro delle centine, con l’aiuto solo del fratello) fissati alle due estremità ad una ampio telaio che segue il perimetro del poligono sulla pedana, ed in alto, ad una piccola corona circolare che forma, invece, un occhio nella cupola; ed infine, la tela di tamponamento in tessuto verde scuro che si mette in tensione con corde sulla struttura ancorandosi alla pedana ed, in esterno, se necessario, anche al suolo.

Il pretesto di fare la doccia, cosa che era possibile all’inaugurazione della personale nella galleria Lia Rumma di Napoli nel 2001 - e che ha infatti causato un vero e proprio happening gioioso, condiviso, per la verità, più dai componenti dello staff che desideravano rilassarsi e purificarsi dallo stress della preparazione della mostra, che dal pubblico - consente d’isolarsi progressivamente dal fragore e dall’invadenza esterni, man mano che ci si spoglia e si penetra poi, finalmente nudi, nel secondo involucro\utero interno, in plastica trasparente, lasciandosi scorrere l’acqua sul corpo. All’interno ell’ovoide e del suo cilindro più intimo si percepisce finalmente il cielo (se la tenda è montata in esterno), o semplicemente la luce della tanza nella quale è montata la tenda, attraverso l’occhio nella volta dal quale defluisce anche il vapore - come in un laconicum contemporaneo - con l’acqua che però fugge e non si raccoglie (grazie appunto al plumbing) come il tempo che non basta mai nella nostra poco eroica quotidianeità. Esempio di una forma indiscutibilmente “sintetica” ed “organica”, invece, di “mondo e piccola casa” che non ha bisogno di dispositivi tecnologici - se non fosse stata originata, però, proprio dal pretesto contingente di fornire un rifugio agli attivisti di un gruppo ambientalista che occupavano un bosco che doveva essere abbattuto (il bosco doveva essere, infatti, sacrificato per la costruzione di una inutile nuova strada) - è rappresentata dall’opera “treetents”, “tende per alberi” del 1998. Utilizzata in alcuni campeggi in Olanda insieme al “tentvillage” (2000) ed esposta al MoMA di New York nel 2005 in una nuova edizione “da esposizione” di colore beige - «sono stanco di vedere vandalizzati i miei lavori, perché interpretati come una sorta di arredo per area giochi» afferma Dre Wapenaar alla richiesta di esporre la sua tenda, come sarebbe stato naturale, su un albero del magnifico giardino pubblico su cui si affaccia il PAC di Milano— l’opera è stata installata di nuovo “a parete” per essere visibile, ma anch’essa non esperibile, al pubblico dal 4 aprile al 18 giugno 2006 nella mostra curata da Gabi Scardi e intitolata: “LESS, Strategie alternative dell’abitare”. Tale mostra ha visto raccolti i lavori di un gruppo di artisti tra i quali Atelier van Lieshout, Lucy Orta, N55, Michael Rakovitz, Luca Vitone, Vito Acconci, Maria Papadimitriu, sovente riuniti ed accomunati in esposizioni che affrontano il tema dell’abitare con un aggettivo o un nome. La mostra è stata seguita anche da un seminario con la scuola di Design dellà Facolta di Architettura di Milano, nel quale lo stesso Wapenaar e la Papadimitriu hanno chiarito agli studenti e a qualche artista presente in mostra, che l’arte non è il design e che il design non è l’arte. L’arte può fare, infatti, magari analogo ricorso al progetto, ma l’uso è per l’architettura e il design una necessità ed un fine, mentre per l’arte è solo un pretesto.

Sempre a Milano, come la mostra del PAC in concomitanza con il Salone del Mobile 2006, si è inaugurata il 5 aprile la seconda personale dell’artista in Italia. Progettata e prodotta espressamente per lo spazio milanese della galleria Lia Rumma, la mostra ha presentato due nuovi padiglioni insieme ad una coppia di deliziose “Birdtents” (tende per uccelli). In questa nuova serie di opere, l’artista intende descrivere: “la nostra esperienza con l’incessante ciclo della vita, il Lemniscaat”. Simbolo dell’infinito introdotto dal matematico Bernoulli, Lemniscaat è anche il titolo di un’opera del compositore olandese Simeon ten Holt, per le cui composizioni per quattro pianoforti, Dre Wapenaar ha progettato e costruito il «Fourgrandpianopavilion» (2004), che ospita da tre anni un festival musicale estivo di cui lo stesso Wapenaar è tra gli organizzatori e promotori.

Nelle due opere presentate in galleria, la «descrizione» della nostra esperienza dei cicli vitali si è realizzata attraverso «l’accumulo di energia» - nel “lumberjackspavilion”- contro «l’apparente assenza di essa» - nel “pavilion of emptiness”.
«Funzionalità e necessità versus apparente mancanza di funzione e di necessità». Il “Padiglione del vuoto” - versione piccola rispetto a quello realizzato nel 2005 per una mostra al “Tent” e poi reinstallato quest’anno, all’aperto, in occasione della retrospettiva di Rotterdam, è costruito sull'esempio dell'architettura orientale, associando a 3 pedane in quercia, che si staccano dal suolo ad altezze differenti - invitando così l’utente ad ascendere al livello più alto per percepire “il vuoto” - una tripla leggera intelaiatura orizzontale, sostenuta da sei montanti verticali in mogano. Lo spazio interno del padiglione è delimitato e protetto (ma anche negato) da tende blu in tessuto eggero pendenti dalla struttura e issate in posizione mediante cordami dall’intenso odore di fibra. Nella sua versione più grande esposta a Rotterdam, le tavole sono tenute insieme ancora da corde in un elegante giunto a raso. Si tratta di un’opera in cui è prevalente, oltre all’assenza di una funzione immediatamente identificabile, una forte componente di manufatto artigianale - la scultura è stata realizzata infatti personalmente dall’artista e da due assistenti - cui sono associate le caratteristiche olfattive e di tattilità dei materiali naturali utilizzati.

Il “Padiglione per il taglio della legna”, è per converso, costituito da un «pieno»: il contenitore in forma di «cubo» per l'immagazzinamento di un volume di 2 metri cubi di legna da tagliare, realizzato industrialmente da un’officina che si occupa di costruzioni navali, in una sovradimensionata struttura in tubolare e scatolare in acciaio galvanizzato e maglie reticolari spaziali. La legna, è protetta dalle intemperie mediante un telo orizzontale quadrato in pvc, inclinato per lasciar defluire l’acqua piovana, e teso tra i vertici di quattro tetraedri irregolari posti agli angoli del telaio cubico e costituiti da tiranti e puntoni in tubolare d’acciaio. L’ asta inferiore è estensibile per egolare la messa in tensione del telo. Strutture traedriche più schiacciate poste al di sotto del cubo sono volte ad ammortizzare il peso ingente della legna e della struttura stessa, nonché per contrastare le eventuali spinte ribaltanti del vento coadiuvati in questo lavoro dai consueti «piedi da astronave» su cui sono incernierati i tozzi puntoni. Una bassa pedana\altare in legno e metallo, affiancata da un braciere che arde, sulla quale è collocato il ceppo destinato ad essere spaccato - precede il padiglione, concepito durante un lungo soggiorno dell’artista a Napoli, dopo un periodo di studio in Giappone nel 2003. Vuoto e pieno, pensiero e azione, sotto forma di un manufatto artigianale ed una costruzione dal carattere giocosamente hi-tech, si ontrappongono in questa suggestiva installazione.

Le tende e i padiglioni di Dré Wapenaar, «sculture sociali» dal limitato costo di produzione (rispetto alla più semplice delle architetture), e pertanto opere libere dalle contingenze che vincolano questa disciplina e che sono generate dalla necessità dell’esistenza di una committenza, di un budget elevato appunto, del rispetto dei vincoli legislativi e dei contesti in cui si collocano gli edifici - conservano intatta, però, dell’architettura la purezza dello stadio nascente, quello del bisogno o dell’ispirazione» direbbe ancora Louis Kahn. Tale «ispirazione» vrebbe generato in qualche opera straordinaria - per esempio nel Pantheon - l’esigenza che un determinato edificio ospiti tutte le divinità «senza gerarchie» e che perciò debba essere realizzato traducendo nel modo più letterale possibile quest’idea\pretesto d’uso - la porta d’accesso ne costituisce, infatti, «l’unica impurità»- - nella forma assoluta del cerchio, e nelle proporzioni perfette della sfera. Al cerchio di pianta corrisponde in alto l’occhio circolare dal quale penetra un fascio di luce, variamente angolato a seconda della stagione e del momento del giorno, che proietta al suolo il cerchio come tale o lo deforma in ellissi. Analoga macchina cosmica è l’opera di Wapenaar “Birtingtent” (tenda per partorire”), 2001, dove la luce del cielo, e l’immagine della torre\faro del museo Boijmans von Beuningen alla cui collezione ppartiene la tenda\utero, si proietta sulla superficie dell’acqua estinata ad essere usata per il parto.
Site: StudioGloriusVandeVen